Il cibo è una cosa seria, tra le più serie della vita. Per questo mi piace trattarlo, da mangiatore e da cuciniere, con una formula magica che è fatta un po’ di grande responsabilità e un po’ di sano divertimento.
+Non è un caso che sin da piccoli veniamo bonariamente perseguitati dalla preoccupazione di qualcuno che ci chiede con insistenza se abbiamo mangiato e abbiamo mangiato abbastanza: nutrire è il primo modo di prenderci cura degli altri e quello più intimo di farlo donando una parte di noi stessi, del nostro tempo, del nostro gusto, della nostra sensibilità.
Ho scelto questo mestiere sapendo di dover maneggiare ogni giorno questo delicato strumento di godimento, che è allo stesso tempo cultura, condivisione e socialità.
Mettere un piatto a tavola vuol dire incoraggiare l’incontro e celebrarne la gioia.
Nella storia di ogni cuoco bolle la pentola di una nonna. Quella della mia mi profuma ancora sotto il naso di pane di casa impastato col cruscenti, delle mani nodose delle donne capaci di lunghi gesti pazienti,
+del richiamo fumoso del forno tra le quattro mura di una vecchia stanza senza tetto, dove di giorno si stava al sole e la notte si cuoceva con le stelle. Sono nato così, esploratore di campagna, correndo tra gli scarponi dei braccianti di mio nonno, che da giugno a novembre avevano sempre qualcosa da raccogliere, dalle mandorle alle carrube, dall’uva alle olive. E in quella piccola, operosa industria tutta femminile che era la cucina, cercavo sempre, curioso e impaziente, giochi tra fuochi e coltelli, accontentandomi alla fine di un pezzo di pasta a cui dare la mia forma. Il miracolo misterioso di quel che arrivava in tavola senza bisogno di ricette, quel gusto intenso, profondo, immediatamente riconducibile alla ricchezza della terra, è l’inizio di tutte le memorie, l’alfabeto del mio mestiere.A sette anni, un giorno che rimasi da solo in casa, mi lanciai nell’esplorazione della ricetta di una melanzana alla parmigiana.
+Mitico piatto delle tavole di famiglia, mi incuriosiva per l’irresistibile gioco delle stratificazioni di colori e consistenze, che poi si andavano a comporre in una forma sempre squadrata e ordinata: un piatto che era insieme ordine impeccabile e irresistibile golosità. Dopo un pomeriggio passato a friggere le melanzane, preparare il sugo, cuocere le uova e - soprattutto - guardare il forno finire il mio lavoro, mio padre la agguantò con un morso e mi disse: “Stavolta tua madre si è superata!”. Oggi come allora la cucina è il mio continente da esplorare, un rifugio dove mi sento al sicuro e a mio agio, come un bambino nella sua casa sull’albero, dove c’è sempre un nuovo gioco da inventare e un nuovo esperimento da fare. Spinto, pur correndo qualche rischio, dall’attitudine innata a sporgersi oltre i confini del già conosciuto e mettersi alla prova.Non fu solo per quella mitica parmigiana da cuoco bambino, che mio padre fu abbastanza illuminato da volermi mandare all’alberghiero.
+Peccato che a vincere certe dispute siano sempre le donne e che, nel nostro caso, complice di mia madre fu la matematica: così finii al Liceo Scientifico e dopo, con lo stesso schema, alla Facoltà di Legge. Non c’è stato giorno che io non abbia cucinato qualcosa di nuovo, per me, in casa, non foss’altro che per il gusto di mangiare le cose che mi piacevano, ma che questa potesse davvero essere la mia strada me ne accorsi solo il giorno in cui l’azienda per cui mi ero messo a lavorare dopo l’università mi propose un trasferimento a Shangai: io decisi di mollare tutto, sposarmi e, con mia moglie Carmen, trasformare un piccolo dammuso nel centro di Noto nella nostra prima trattoria. Per fortuna il tempo ci insegna a conoscerci e ad arrenderci al fatto che la vocazione sia un istinto insopprimibile e, in definitiva, il luogo dell’anima in cui mettiamo le radici.La fatica dell’autodidatta richiede il doppio della dedizione, ma regala anche il doppio della soddisfazione. Crescere, da cuochi, come allievi di qualcuno, ti spiana la strada,
+ dell’apprendimento laddove crescere da autodidatta ti costringe a provare moltissimo e a sbagliare moltissimo. Ma a tutti i miei pomeriggi in cucina, alle mie notti insonni, alla grande avventura di scrivere da solo i miei appunti sul foglio bianco, devo tutto ciò che ho imparato: la pazienza nell’osservazione della materia e le potenzialità di uno studio approfondito della sua composizione, ma non solo. Ogni rigida ricerca ti porta, in realtà, a trovare te stesso, a sperimentare il tuo approccio personale con ciò che ti circonda e con ciò che hai tra le mani. Quanto al risultato, non è affatto detto che sia il migliore possibile, ma è senza dubbio il più autentico: il regalo più sincero che puoi condividere con chi si siede alla tua tavola.La scienza è lo strumento di chi vuol cucinare con consapevolezza, indagando le caratteristiche di ogni materia prima nel rispetto di ciò che la natura ci ha donato:
+ogni sperimentazione ha senso se rinuncia alle forzature, puntando piuttosto a scrivere un capitolo nuovo nella scoperta di ogni prodotto e della sua versatilità. Ma la tecnica, anche quella prestata con più neutralità a questo compito, non basta senza che a completarla intervengano la generosità, la fantasia e - di tanto in tanto - un pizzico di coraggio da parte di chi cucina: così mi piace onorare la fiducia di ogni mio ospite e provare a contagiarlo con l’entusiasmo mio e della mia brigata. Questo processo val bene il prezzo di essere sempre insoddisfatto, proteso a una continua, spasmodica ricerca del risultato migliore. Così sì confà ad ogni artigiano scrupoloso che considera che il proprio lavoro sia in realtà un modo di essere, di agire, di pensare e vedere il mondo in un continuo, entusiasmante, inesauribile innamoramento.